Lavoro, boom di dimissioni
Il Sole 24 Ore dell’11 marzo 2023 pubblica un articolo con una notizia sorprendente: nel 2021 sono circa 1 milione e 930 mila e nel 2022 quasi 2 milioni e 200 mila, i lavoratori che lasciano il posto fisso, spesso senza avere un’alternativa migliore, spesso accettando un lavoro meno retribuito. Sono in maggioranza giovani tra i 20 e i 35 anni, ma anche molte persone che ricoprono ruoli di responsabilità, con una formazione medio alta. Cosa sta veramente succedendo? Come e cosa guardare di questo fenomeno in aumento?
Se ne è parlato in vari ambienti, soprattutto gli imprenditori si chiedono come fare a trattenere e motivare le persone: “Ma a te cosa piace fare?” è una domanda a cui chi lascia il lavoro non sa rispondere se non mostrando un disagio. È vero che con lo smart working il lavoro sta cambiando, che manca una politica del lavoro, un raccordo tra scuola e lavoro, ma spesso si guarda al problema con criteri che non toccano la questione vera.
Vari imprenditori pensano a ricette per risolvere il problema, tipo l’aumento di stipendio, qualcuno chiude la discussione con “i giovani non hanno voglia di lavorare”. Ne hanno parlato anche un sindacalista, Bentivogli, e un sacerdote, don Carron, in un incontro del 18 novembre 2022, intitolato Il nuovo alfabeto del lavoro, con una profondità che ci ha colpito.
Dal loro dialogo emerge la necessità di considerare il problema come una sfida educativa: il lavoro deve far fiorire le persone. Se fino a qualche anno fa poteva bastare considerare il lavoro per avere dei soldi, per poi cominciare a vivere, oggi non basta più. Si sente la necessità di vivere sul lavoro una socialità appagante, di crescere personalmente insieme agli altri, di essere considerati persone e non solo lavoratori, liberarsi nel lavoro e non liberarsi dal lavoro. Soprattutto è sempre più evidente il bisogno di senso: si lascia il lavoro o si lavora al minimo sindacale anche in aziende multinazionali che offrono una grande quantità di vantaggi. Questo fa capire che si è perso il senso di andare a lavorare, ma anche di fare famiglia o di impegnarsi in un’opera. “Chi ha un perché per vivere, sa sopportare qualsiasi come” diceva Nietzsche. In Uganda le donne malate di AIDS non prendevano neppure le medicine finché Rose, l’infermiera che le accompagnava, ha suscitato in loro la consapevolezza della propria dignità e valore.
“O c’è una presenza significativa che porta questa ragione, uno sguardo su di sé che fa riscoprire la propria dignità”, dice don Carron, o “tutto è piccino alla capacità dell’animo” (Leopardi).
Il motivo per vivere sfida soprattutto noi cristiani, diventa per noi occasione di testimonianza e fattore che provoca stupore e domanda negli altri: “Ma tu come fai a essere sempre contento?” Sì, perché il senso del vivere non è astratto: richiede una presenza che lascia intravedere l’infinito amore che attende ciascuno di noi e rende diverso lo studio, il lavoro, perfino le esperienze di dolore che ci possono toccare.