Perché Santa Teresina di Lisieux è patrona delle missioni?

di Lucio e Lorenza

Il 14 dicembre del 1927, esattamente 90 anni fa, Pio XI proclamò Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, insieme a San Francesco Saverio, patrona delle missioni. Proprio lei, una carmelitana che consumò la sua breve e fragile vita – morì a soli 24 anni – tra le mura del Carmelo di Lisieux, all’apparenza così lontana dalle fatiche e dai problemi «delle terre di missione». Teresa di Lisieux racconta il suo desiderio di essere missionaria. “Vorrei essere missionaria, non soltanto per qualche anno, vorrei esserlo stata fin dalla creazione del mondo ed esserlo fino alla consumazione dei secoli”, scrive Teresa nel suo diario. Qual è per Teresa il fine di ogni sollecitudine apostolica? «La scoperta che la stessa opera apostolica è opera di Cristo. La sorgente di ogni missionarietà umana è la missionarietà stessa dell’amore di Dio Padre, il suo venire incontro agli uomini per salvare tutti i suoi figli». “Passerò il mio cielo a fare del bene sulla terra” Papa Francesco, citando Papa Ratzinger, ripete sempre che la Chiesa cresce non per proselitismo, ma per attrattiva. Una dinamica richiamata di continuo anche da Teresa di Lisieux. L’apostolo, il missionario, è colui che può attirare altri a Cristo solo perché lui è a sua volta attirato. Solo perché attraverso di lui si esercita l’attrattiva di Cristo.

In Teresa l’opera apostolica passa sempre attraverso i gesti concreti della carità fraterna. Lei ripete che “la carità fraterna è tutto sulla terra. Si ama Dio nella misura in cui la si pratica”. E questo perché ogni gesto di carità è un gesto operato da Cristo stesso. “Lo sento, quando sono caritatevole” riconosce Teresina “è Gesù solo che agisce in me”. Qual è per Teresa il fine di ogni sollecitudine apostolica? «Salvare le anime. Quello che venivo a fare al Carmelo» scrive Teresa: “Lo dichiarai ai piedi di Gesù Ostia, nell’esame che precedette la mia professione: sono venuta per salvare le anime e specialmente per pregare per i sacerdoti”.

Questo, per Teresa, vuol dire una cosa sola: “amare Gesù e farlo amare”. Chiedere di essere attirata da Lui per attirare a Lui tutti gli altri. Teresa si accorge che potrà donare a Cristo solo le anime che Lui stesso le avrà donato in precedenza. Dio fa desiderare quello che vuole donare. È la “dinamica dei desideri”, così presente in tutta la vita di Teresa. Solo dall’incontro e dall’amore per Gesù nasce la sollecitudine apostolica. Non è una pulsione auto- prodotta. E anche l’efficacia apostolica – riconosce fin dall’inizio Teresa – è dono di Dio, che si può solo domandare nella preghiera. Lei scrive che “far del bene alle anime, senza l’aiuto di Dio, è cosa altrettanto impossibile quanto far risplendere il sole durante la notte. Solo Cristo stesso, essendo vivo e operante, può attirare a sé le anime. Senza di Lui, l’attività di qualsiasi apostolo è inutile, destinata a essere senza frutto”. In un’epoca in cui anche nella Chiesa l’attenzione sembra tutta concentrata su mezzi e metodi per “animare cristianamente” il mondo, certe volte sembrano sparite dall’orizzonte le parole di Gesù, che offrono un criterio definitivo per considerare ogni ministero apostolico o ecclesiale: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre mio che mi ha mandato”. Teresa riconosce che la missione è tutta lì, in questa forza d’attrazione della grazia che opera in chi è unito a Cristo: “Quanto più dirò: ’attirami’ – scrive nel suo diario – tanto più le anime che si avvicineranno a me (povero, piccolo rottame di ferro inutile, se mi allontanassi dal braciere divino) correranno rapidamente all’effluvio dei profumi del loro Amato”.

La condizione della malattia, e poi la morte, mortificano e alla fine cancellano fatalmente ogni impulso di proselitismo, ogni fervore di militanza. Invece Teresa guarda alla morte come il passaggio a una condizione che renderà più efficace e fruttuosa la sua vocazione apostolica. Lei sa già che “passerà il suo cielo a far del bene sulla terra”. La fede di Teresa nella vita futura non è una beata, ma inattiva contemplazione di Dio, ma piuttosto un’apertura verso un’attività apostolica più intensa. “Ben più di quaggiù, io sarò utile alle anime che mi sono care”.