Una bontà che va oltre la giustizia

Il Vangelo ci insegna il senso profondo della giustizia, ossia l’Amore. In altre parole, tutte le volte che ci chiediamo se questo o quello è giusto o meno, dobbiamo anche immediatamente chiederci se è buono per me o per gli altri. Il Signore è giusto perché prima di tutto è buono ossia fin da subito vuole il bene di tutti coloro che Ama. La nostra vita è molto spesso condizionata dagli eventi che viviamo. Nessuno di noi può pianificare a tavolino il da farsi ma deve fare i conti di volta in volta con ciò che gli capita e che inevitabilmente lo condiziona. Dobbiamo però domandarci se questi condizionamenti ci spingono a fare delle scelte o a rinchiuderci in noi stessi.

La bontà di un evento non la si vede dall’evento stesso ma dalle conseguenze che provoca su di noi. Il dolore può ad esempio distruggerci o convertirci, un’ingiustizia può incattivirci o spingerci alla testimonianza, un evento gioioso può farci vivere nella paura che sia un’illusione oppure aiutarci a diventare più maturi. Non abbiamo nessun potere sugli eventi ma possiamo decidere come posizionarci davanti ad essi. La fede non è tanto credere che Dio esista ma credere che tu esisti per Dio.

Capire questo ci aiuta a cambiare il nostro modo di vedere le cose, ci trasforma e ci interroga.

Può esistere una vera giustizia senza la bontà?

Umanamente sembra impossibile cambiare la nostra prospettiva ma per me è stato illuminante, leggere e meditare il commento che P. Ermes Ronchi ha fatto del Vangelo di Matteo (20, 1-16).

“Finalmente un Dio che non è un “padrone”, nemmeno il migliore dei padroni. È altra cosa: è il Dio della bontà senza perché, che crea una vertigine nei normali pensieri, che trasgredisce le regole del mercato, che sa ancora saziarci di sorprese. Intanto è il signore di una vigna: fra tutti i campi la vigna è quello dove il contadino investe più passione e più attese, con sudore e poesia, con pazienza e intelligenza. È il lavoro che più gli sta a cuore: per cinque volte infatti, da uno scuro all’altro, esce a cercare lavoratori. È questa terra la passione di Dio, e coinvolge me nella sua custodia; è questa mia vita che gli sta a cuore, vigna da cui attende il frutto più gioioso.

Eppure mi sento solidale con gli operai della prima ora che contestano: non è giusto dare la medesima paga a chi fatica molto e a chi lavora soltanto un’ora. È vero: non è giusto. Ma la bontà va oltre la giustizia. La giustizia non basta per essere uomini. Tanto meno basta per essere Dio. Neanche l’amore è giusto, è un’altra cosa, è di più. Se, come Lui, metto al centro non il denaro, ma l’uomo; non la produttività, ma la persona; se metto al centro quell’uomo concreto, quello delle cinque del pomeriggio, un bracciante senza terra e senza lavoro, con i figli che hanno fame e la mensa vuota, allora non posso contestare chi intende assicurare la vita d’altri oltre alla mia.

Dio è diverso, ma è diversa pienezza. Non è un Dio che conta o che sottrae, ma un Dio che aggiunge continuamente un di più. Che intensifica la tua giornata e moltiplica il frutto del tuo lavoro. Non fermarti a cercare il perché dell’uguaglianza della paga, è un dettaglio, osserva piuttosto l’accrescimento, l’incremento di vita inatteso che si espande sui lavoratori.

Nel cuore di Dio cerco un perché. E capisco che le sue bilance non sono quantitative, davanti a Lui non è il mio diritto o la mia giustizia che pesano, ma il mio bisogno. Allora non calcolo più i miei meriti, ma conto sulla Sua bontà. Dio non si merita, si accoglie. Ti dispiace che io sia buono?

“No, Signore, non mi dispiace, perché sono l’ultimo bracciante e tutto è dono. No, non mi dispiace perché so che verrai a cercarmi anche se si sarà fatto tardi. Non mi dispiace che tu sia buono. Anzi. Sono felice che tu sia così, un Dio buono che sovrasta le pareti meschine del mio cuore fariseo, affinché il mio sguardo opaco diventi capace di gustare il bene.”

(Tratto da Rubriche di Avvenire settembre 2008)