Di che vizio sei? Amare nella società dell’”io”

L’intelligenza che distingue l’essere umano, gli permette, tra le altre cose, di porsi domande sul senso della vita, sul valore dei gesti, sul modo di comportarsi, sull’essere cristiano. Compiendo un’impresa straordinaria è opportuno per il cristiano il vanto o il nascondimento? La frase che tanto inorgoglisce “Mi sono fatto da me!”, metafora per l’assoluta fiducia nei propri talenti, è solo segno di esagerata stima di sé o giustificazione coerente delle fatiche passate senza falsa modestia? Non si può vedere una conquista come la conseguenza di un percorso “in cordata”? La necessità di sentirsi confermati sempre dagli altri nell’esercizio del proprio lavoro, è bisogno di incoraggiamento costante per continuare nelle proprie attività o bisogno di vedere riconosciuti solo i propri punti di forza per diminuire gli altri? Quel diavoletto chiamato superbia è la macchia ereditata col peccato originale, parola di Evangelista ovvero:

  1. è la pretesa e la convinzione di meritare per sé stessi, con ogni mezzo, una posizione di privilegio sempre maggiore rispetto agli altri considerati di conseguenza inferiori;
  2. è sentirsi migliori di Dio.

Dalle considerazioni di Don Marco Pozza, sacerdote cappellano presso la casa circondariale di Padova: un’impresa, chiamiamolo così un gesto significativo, compiuta come gesto d’amore cristallino, non ha bisogno di essere corollata da elogi. Mettere l’etichetta “IO” a tutto ciò che si fa, non è amare. Chi parte da zero e arriva ad un traguardo è giusto che si senta un’aquila per le effervescenti energie che ha trovato, ma non perchè potrà finalmente fare esercizio di un potere raggiunto per sovrastare o intimorire gli altri magari con il motto: “Guardate e fate attenzione a chi sono io e a chi sono diventato”. La presenza di questa tentazione caratterizza un po’ la natura umana; sentirsi meglio di altri è una sensazione comune dentro al cuore degli uomini che se da una parte conferma doti, abilità, capacità e rassicura, dall’altra suggerisce di tenersi all’erta per non perdersi. Perdersi nell’illusione di essere grandiosi e di essere capaci di fare a meno di Dio addirittura di porsi in sfida con Lui.

La scrittrice G. Eliot, mette in evidenza l’aspetto ridicolo del superbo: “Il superbo è come quel gallo che pensa che il Sole sorga per sentirlo cantare”; supportata anche da un gustoso aneddoto di San Francesco di Sales: Al passaggio di un ricco cavaliere, pieno di sussiego, troneggiante su un destriero bardato, tutti si inchinarono in segno di rispetto. Il Santo, senza scomporsi, esclamò a voce alta “Poveretto, non sa che tutti stanno salutando il cavallo e non lui”. Siamo tutti un po’ orgogliosi; è diverso essere orgoglioso della conduzione della propria vita, di un grande sogno finalmente realizzato ed essere orgoglioso disprezzando gli altri o mettendo a repentaglio la vita degli altri. Dio ha scelto Madre Teresa come “la matita” e Lei ha deciso di ”scrivere” la sua vita orientata dal progetto di Dio, affidandosi e fidandosi di Lui, nella fatica e nella gioia. Agire fidandosi di Dio significa ammettere di sentirsi sempre mancante di qualcosa; significa mettere a servizio i propri talenti e anche riconoscere fragilità e limiti. Don Maurizio Mirilli usa una similitudine per spiegare ai bambini il vizio della superbia che definisce come la disposizione della propria libertà verso il “tradimento di una virtù” che in questo caso è l’umiltà: “Ad un bambino la superbia può essere raffigurata con un palloncino gonfiato tondo tondo, pieno di gas da renderlo tanto attraente. L’umiltà è lo spillone che riesce a sgonfiare in modo permanente il palloncino”. Bernardo da Chiaravalle dice che ci sono due tipi di superbia: quella dell’intelletto e quella della volontà. Quella dell’intelletto si incarna nell’uomo che recita il ruolo dello “yes man”, che ricerca insistentemente l’attenzione e il plauso altrui, che non fa nulla senza il riconoscimento degli altri; quella della volontà è l’incapacità di accettare i punti di vista degli altri e perpetrare nella propria posizione di sentirsi nell’assoluto giusto e nell’assoluta ragione a tutti i costi. Essere pieni di sé ha come conseguenza l’allontanamento degli altri; nessuno desidera essere amico di un superbo. Tanti ragazzi e giovani di oggi sono portati a sentirsi superiori rigettando ogni riferimento, modello o esempio di adulto. Chi sta accanto ai giovani avrebbe il compito di portarli a valorizzare la comunicazione, l’ascolto, il mettersi costantemente in discussione, a renderli consapevoli che possono volare in alto, ma sulle spalle di giganti che sono stati prima di loro, che hanno fatto esperienza del mondo prima di loro e che nel mondo hanno portato la loro saggezza. Il fatto che molti giovani sappiano usare con disinvoltura la tecnologia e ogni tipo di dispositivo, non significa che abbiano il diritto di sentirsi “arrivati” e superiori e deliberatamente non accedere a niente e a nessuno, fare a meno, sbarazzarsi della sete di riferimenti per imparare e crescere. Anche la fede è un potente antidoto a sentirsi creatura di fronte al Creatore e aiuta ad essere umili anche alla luce di tangibili e concreti talenti meravigliosi, da non dimenticare, che sono unicamente doni di Dio, soprattutto per entrare in comunione con il prossimo.

I sacerdoti che qui hanno offerto spunti di riflessione sul vizio capitale della superbia, ne tracciano anche una proposta di terapia per non eccedere nella tentazione.

Vinco la superbia e posso sentirmi bene e meglio se:

  • vedo il bello che c’è negli altri;
  • so chiedere scusa;
  • so donare apprezzamenti agli altri;
  • allontano il giudizio sugli altri;
  • mi sforzo di accogliere le “umiliazioni” per ricominciare da capo, (lo spillone che sgonfia il pallone gonfiato; quella risposta bruciante che mette in silenzio e fa riflettere, per cambiare);
  • mi sforzo di accogliere quella critica che si traduce in un comportamento positivo – attivo;
  • mi concentro sul guardarmi dentro, sull’accettare i miei limiti;
  • dico grazie e sono grato. Considero l’intelligenza, la salute, la fede, doni meravigliosi da esportare per fare del bene, proprio in virtù del fatto che io stesso li ho ricevuti come doni gratuiti;
  • riconosco che il valore della persona non è legato all’attenzione di qualcuno o alla sua mancanza di parole. Niente dipende da come gli altri mi vedono o da come li faccio sentire; il valore della persona è la grazia di Dio che mi porto dentro dalla nascita, indipendentemente da convalide esterne;
  • imparo a trarre forza da Gesù, da come ha amato e mi ama.

Letture consigliate:
Per gli adulti, un racconto di Bruno Ferrero “È arrivato un mostro”; per i bambini, di Esopo la favola “Il corvo superbo e il pavone”.