L’estate è un tempo propizio per avere momenti di pausa ristoratrice, tempo in cui aumentano le possibilità di scelta nell’organizzare e vivere le proprie giornate, tempo disponibile per qualche buona lettura che possa aiutarci a dare un senso al nostro vivere quotidiano.È in questo tempo che ho letto questo scritto di Alessandro D’Avenia che desidero condividere con voi, affinchè possa suscitarvi quello che ha suscitato in me.
“Ho quasi un centinaio di copie del piccolo principe, il racconto di Antoine de Saint-Exupéry, in altrettante lingue e dialetti: una per ogni Paese visitato da me o dai miei amici. Volevo poter dire in tutte le lingue che “l’essenziale è invisibile agli occhi”, ma che cos’è l’essenziale e in che maniera è invisibile? Lo mostra quel racconto in cui un pellegrino, uno dei tanti in cammino verso un Santuario nel Medioevo, s’inerpica su una strada tra grandi cave di pietra, in una giornata di sole cocente. Vede uomini impegnati a sgrossare le pietre con i loro scalpelli e si ferma ad osservarne uno, coperto di sudore e polvere, le braccia ferite dalle schegge. “Che cosa fai?” gli chiede. “Non lo vedi?” risponde l’uomo infastidito, senza alzare il capo: ”Mi ammazzo di fatica”. Il pellegrino riprende il cammino e incontra un altro spaccapietre, altrettanto stanco, sporco e stizzito. ”Che cosa fai?”. “Non lo vedi? Lavoro tutto il giorno per far mangiare i mei figli”. Il pellegrino continua il viaggio ed incontra un terzo scalpellino, malconcio come gli altri, ma sereno. “Che cosa fai?”. “Non lo vedi? -Risponde l’uomo sorridendo – sto costruendo una cattedrale” e gli indica l’edificio che sta sorgendo in cima alla collina. L’essenziale, invisibile agli occhi del primo, visibile solo parzialmente agli occhi del secondo, diventa chiaro al cuore intelligente del terzo, non come illusione o emozione ma come orizzonte di senso che trasforma la mera fatica in lavoro e vita. Per questo l’incendio di Notre-Dame ci ha ferito, credenti o no: vedendo quelle immagini abbiamo sentito bruciare una parte di noi e non “solo” il legno secolare del tetto di un edificio. Le cattedrali sono sempre state la metà visibile dell’invisibile, lo spazio escogitato dall’uomo per far abitare il divino sulla terra. Con questo spirito Gaudì concepì la Sagrada Familia: voleva che il futuro collaborasse all’opera grazie ai legami tra artisti e popoli del XIX, XX e XXI secolo. Ci sarà l’Europa solo quando avremo lo spirito con cui si costruivano le cattedrali: non basta una moneta comune tra egoisti a fare un europeo, ma ci vuole un valore comune superiore da realizzare con il meglio del genio e dell’impegno di ogni popolo. La religione ha sempre fornito un ordine simbolico che ci spinge a guardare oltre, a colui che rende significativa ogni cosa: il mestiere di vivere è lo stesso per tutti, ma chi vede la cattedrale nella pietra che sta lavorando può vivere il limite umano come potenzialità feconda. Le nostre “cattedrali” contemporanee (stadi, ipermercati, parchi divertimenti…), per quanto aggreghino e offrano svago, non riescono a soddisfare la sete di senso, perché non rimandano ad altro se non ad oggetti ed emozioni finiti. Il Credo cristiano si chiama simbolo della fede, per indicare l’ordine di senso in cui le persone più diverse e sparse dappertutto si riconoscono in un legame: sono figli dello stesso Padre. Oggi la cultura del “pienessere” ci spinge a essere continuamente colmati, pieni, soddisfatti, per sentirci amati, mentre per esserlo abbiamo bisogno di riconoscerci la metà visibile di una storia più ampia. Ammazzarsi di fatica o costruire una cattedrale si riferiscono alla stessa azione, ma la prima, senza oltre, schiavizza, l’altra invece, avendo un senso, libera.”