Ci siamo quasi, tra qualche giorno nella Solennità di Tutti i Santi, la Chiesa ci inviterà nuovamente a guardare a loro per poterli imitare. Ma chi sono i Santi e cosa hanno a che fare con la nostra vita? Venerdì 8 aprile 2005 facevo parte del gruppo parrocchiale che si è recato a Roma per i funerali di papa Giovanni Paolo II. Mai avrei immaginato di poter arrivare in piazza San Pietro, mi sono sempre chiesto il perché della presenza di tutte quelle persone che in quei giorni affollavano la città e mentre il “Vento” girava le pagine del Vangelo, il mio sguardo fissava quello striscione che dava voce al sentimento di tutti: “Santo Subito”. Solo a distanza di anni, leggendo l’articolo di Alessandro D’Avenia, mi sono reso conto che questa è una possibilità per tutti e che nella vita siamo chiamati proprio a questo…
Nella tradizione cristiana si festeggiano «Tutti i Santi», cioè non solo quelli del calendario, ma tutti quelli che godono di una condizione di «beatitudine». Alla parola «Santo» che viene associata a un inarrivabile supereroe della fede capace di cose straordinarie, preferisco la parola usata da Cristo per indicare «chi ha la vita eterna»: «Beato». Beato vuol dire infatti felice e la vita eterna non è la vita dopo la morte, ma la vita superiore a qualsiasi tipo di morte (noia, abitudine, dolore…), vita a massima intensità, che non può essere spenta. Il Beato è felice perché la sua vita è feconda, dà frutto, ha la Gioia. Il Beato è infatti «con-tento», come dice la parola stessa, è «tenuto insieme», come un bambino in braccio alla madre, egli è in braccio alla vita: ogni aspetto della vita attorno a lui e in lui mostra unità e pienezza. Ma si può davvero esser Beati in mezzo alle fatiche e alle sofferenze del vivere quotidiano, adesso, subito? Se la vita è senza senso, senza con-tenuto, è vuota il tempo non passa mai. La natura stessa si cura d’informarci al riguardo, essa ci avverte con un segno preciso che la nostra meta è raggiunta, questo segno è la gioia». Vivere felici e contenti, come si dice alla fine delle favole, non indica solo ciò che accadrà ai protagonisti dopo la narrazione, ma soprattutto ciò che è avvenuto: «hanno vissuto» felici e contenti proprio perché hanno realizzato i loro desideri, a costo di rischiare la loro stessa vita. Le favole ci ricordano che la gioia è il frutto di una risposta coraggiosa alla propria chiamata in un mondo che resiste e spesso ci ostacola. Ma si può esser «Beati» solo se non ci si «accontenta», se si vive a misura del proprio desiderio e non si vivacchia a misura dei desideri altrui. Dove c’è il Beato la vita diventa più viva, cioè si moltiplica, e non perché lui sia migliore degli altri ma semplicemente perché prova a dare frutti buoni agli altri, facendo maturare la propria originalità. Non si può essere felici, contenti, Beati, se non si è uniti a sé e al mondo: il Beato restituisce con gli interessi ciò che prende, in lui non c’è emorragia di vita ma la sua moltiplicazione. Il Beato non ignora ferite e fallimenti, ma se ne serve come concime necessario a dare frutti e buon umore, perché la beatitudine non sta nel mero benessere ma nell’unione con cose e persone, e la gioia tiene conto del dolore perché non si riduce a una superficiale allegria che lo cancella. Il Beato non si concentra su se stesso e sul successo di pubblico, ma sul «pro-creare», fare qualcosa di bello al mondo, secondo la propria chiamata originale alla «vita eterna», la vita piena di senso, quella in cui nulla va sprecato. Essere Beati significa non fuggire dalla realtà, per quanto dura e sporca sia, perché è solo dentro di essa che si diventa Beati: cioè Santi Subito.